COMMENTI STATICI – 26



Tre tipi d’uomo hanno fatto tutte le cose belle: le Aristocrazie hanno fatto le belle maniere, perché il posto che occupano nel mondo le pone al di sopra della paura della vita, e i campagnoli hanno fatto le belle storie e le credenze, perché non hanno niente da perdere e perciò non hanno paura, e gli artisti hanno fatto tutto il resto, perché la Provvidenza li ha riempiti di sprezzatura. Si riallacciano tutti a una lunga tradizione in quanto, privi di paura, hanno perseverato in qualsiasi cosa gli piacesse.

William Butler Yeats, La poesia e la tradizione


Lo stile porta in sé la prova dell’esistenza.

Gottfried Benn, La crisi dei fondamenti



L’esperienza che fonda la vita dell’uomo materiale è quella della veglia e del suo mondo. Questa è per egli la base della creazione tanto onirica quanto artistica. Dal suo punto di vista, il sogno “ricorda” le forme esperite nella veglia e le ricombina secondo regole che ogni civiltà vuole elucidare e redigere a scopo interpretativo cioè di controllo: si tratta di far corrispondere a ogni oggetto onirico una realtà diurna, passata o futura, di cui il sogno è segno. Come il sogno, dal punto di vista della veglia, anche l’arte, esperendo la materia del proprio operare nella veglia, ordina tale materia secondo le regole che l’epoca produce e riproduce. Ma tali regole sono in realtà esse stesse al principio dell’arte, perché sono altresì le regole della sua memoria del mondo: per l’arte, ovvero, memoria è tradizione.

Lo è in primis in modo ereditario, come tesoro di prassi e figure che il maestro destina all’allievo. Sotto quest’aspetto, le regole della tradizione sono dei dettami ricevuti acriticamente dall’artista, e ciò vale tanto per un tema, ad esempio Luca allo scrittoio, quanto per una grammatica, ad esempio la prospettiva inversa. Ma nel corso dell’acquisizione della tecnica l’artista acquista anche un senso critico rispetto a quel che ha ereditato e si chiede: “Perché queste e queste sole regole? Perché non innumerabili o nessuna?”

Intellettualmente, l’arte ha regole perché il cosmo è ordine. Non si può parlare di disordine nell’ambito del mondo manifesto, composto di forme, il mondo della veglia e del sogno, lo stesso a cui è avvinta l’arte, dato che la forma è limite e che ogni limite è il termine di una relazione; mentre il disordine è una nostra deduzione laddove non scorgiamo i limiti e dunque la relazione di cui sono testimoni, ad esempio quando i limiti sono remoti da noi. Esperienzialmente, il numero finito delle regole viene dalla certezza che al potere creativo umano sia più propizio un fondo chiuso che uno aperto: se nel fondo aperto disseminiamo senza attenzione perdendo così in potenza, in quello chiuso concentriamo l’attenzione e con essa la potenza creativa perché ogni spanna dia frutto. Liberamente poi, la tradizione e le sue regole sono figlie del coraggio e del desiderio di quegli uomini che, al di sopra della paura della vita o senza niente da perdere o riempiti di sprezzatura, riconoscono ciò che vale e perdura come ciò che incontra il loro gusto, e viceversa, per cui perseverano in qualsiasi cosa gli piaccia.

V’è quindi tutt’altro ordine di ragioni per la presenza di regole in arte. Essa è da sempre dovuta, essendo le regole i modi limitanti del creare, anzitutto all’uso di strumenti, tecniche, lingue che possono esistere ed essere operanti solo perché limitati. Il linguaggio è la tecnica più sottile e vasta che l’uomo abbia, eppure ognuno coglie immediatamente la feracità delle sue limitazioni, che s’incarnano nelle singole lingue: un numero finito di suoni è un punto d’incontro possibile, laddove una combinazione indefinita di suoni è un non-luogo in cui impossibile è l’incontro. A immagine del linguaggio, ogni tecnica è più o meno incarnata e feconda nell’autoevidenza dei propri limiti. Sono questi che l’artista si industria a modellare, affinando vuoi l’uso, vuoi il corpo stesso dello strumento. Inoltre, tale processo limitativo che è la tecnica, è bifronte e teso verso due poli: la singolarità e la trasmissibilità. La singolarità è in senso profondo stile: lo stile è il limite interno, proprio alla persona e sua espressione; lo stile è una parlata. La trasmissibilità è in senso lato tradizione: la tradizione è il limite esterno, l’orizzonte che raccoglie e informa i singoli sguardi; la tradizione è una lingua.

L’arte, intesa come insieme di pratiche e opere, non ha per fine lo svago dei sensi, ma la loro intensificazione e direzione. L’arte informa i sensi. L’abitudine alla monodia o alla polifonia, ad esempio, crea degli orecchi del tutto differenti, che sanno o non sanno percepire il suono fondamentale di un bosco, quindi sanno o meno percepirne l’unità reale. L’arte dà così forma a una “sensibilità” che è del singolo quanto della sua comunità, e massimamente di chi tale “sensibilità” debba usarla per creare un artefatto: le opere fruite e le tecniche emulate hanno già plasmato sensi e mente di chi operi secondo i precetti appresi. Qui sta l’aspirazione massima dell’arte: le sue regole non sono più esteriori, per la costruzione dell’opera, ma interiori, sono i modi della percezione stessa. Così per l’arte, e ora lo intendiamo più internamente, memoria è tradizione: non solo perché si memorizzano delle regole, ma anche perché si ricorda il mondo attraverso quelle regole, o meglio, attraverso lo sguardo rinnovato dall’incontro con le pratiche e le opere che sono derivate da quelle regole.

Chi assimili i precetti di una tradizione è colui che può realmente rinnovarli, perché la metamorfosi reale è interiore, o in termini biologici: è genotipica. Così inaudite per intimo rigore sono le passacaglie o le fughe di uno Šostakovič. D’altronde quei precetti l’artista deve saperli vedere, assimilandoli, oggettivamente, per guidare razionalmente e non subire sentimentalmente tale metamorfosi. Chi riesca in questo non è dunque solo un ligio artefice, è anzitutto un amante del sapere. Egli non è alieno al concerto intellettuale della sua epoca e vi ha una parte nobile. Anche quando silenziosa. Vitale, per una comunità artistica, è curarsi che la propria precettistica sia tanto meno originale quanto più originaria possibile, così come ogni nascita lo è, perché non impedisca l’accadere di coloro che portino a compimento il collettivo, costante, anonimo sforzo di raffinamento dei sensi e degli strumenti dell’uomo e dell’arte. Come un albero che cresca nell’ombra di un bosco e si alzi infine tanto da trovare dei raggi, tutto il suo corpo ne trae profitto e splendore, e il merito va alle ultime foglie quanto alle prime. Così quando diciamo Rublëv non diciamo Rublëv bensì Arte dell’icona.

Dando intensità e direzione non tanto o solo alle forme che dal mondo trae e traduce, quanto e più alla percezione di tali forme, l’arte va riconosciuta come una chiave di volta nell’architettura della società. È conseguentemente capitale che le sue regole non siano il riflesso delle opinioni di menti isolate, autoproclamatesi carismatiche, ma frutto dei giudizi di un simposio, di un chiostro, di una corte, in cui i sapienti considerino e conversino. Ne va infatti della vita di una civiltà, nonché della sopravvivenza materiale, tanto del sostentamento quanto dei tratti specifici, del suo gruppo umano, se la civiltà è il luogo in cui si plasmano le pratiche del vivere insieme e della sua difesa. Perché nient’affatto anodino è che una chiesa abbia struttura slanciata e liquida, altissime vetrate e absidi vertiginosi, dove la luce prorompe dall’esterno in giochi spettrali; o che una chiesa sia compatta e tutta raccolta attorno all’altare sopra la cripta, con brevi feritoie da cui appena traluca il giorno, in cui la luce va cercata nella tenebra. Gotico e Romanico manifestano due mentalità che retrospettivamente possiamo affermare essere due civiltà: la prima considera la luce un fenomeno puramente esteriore, da osservare oggettivamente; la seconda guarda alla luce esteriore come segno di quella interiore. Capendo ciò, nel dilemma di uovo e gallina, l’artista verace si impone, per sé, di pensare che arrivi prima l’uovo: che arrivi prima l’opera e poi lo sguardo; che l’arte sia la chiave di volta che regge l’arco della civiltà e che ne orienta la costruzione. Pensa anche che quando tale arco si presenti completo, egli debba lottare per l’affermazione di ciò che in esso è portante, di ciò che in esso sussiste di giusto ovvero bello, e la vittoria in arte si chiama perfezione.

Nell’ora in cui sente crollare la civiltà dove vive, l’uomo volge lo sguardo a comunità altre nel tempo o nello spazio. Come un pargolo, perché nuovo è tutto quel che scorge, è affascinato anzitutto dai colori, dai ceselli, dai canti e dai templi che esse gli hanno tramandato, che egli non ha eraso. Non è affascinato dalle dotte dispute che hanno dato a chi creava la cornice necessaria per operare secondo giustizia e quindi bellezza. Anzi, sovente per ideologia, venendone a conoscenza, egli mostra per esse avversione. Ma la grande arte sopravvive all’ideologia dell’infante, lo affascina e lo convince della propria bontà, al di là dei pregiudizi della sua educazione. Perché lo stile porta in sé la prova dell’esistenza, al di là dell’apparenza. Esso è testimonianza di ciò che vale e perdura. La tradizione assicura che tale testimonianza non muoia con il suo autore, ma sia continuamente intesa e tradotta. La tradizione ne è quindi il sostanziale, procreativo, vivente testimone.




Federico Pietrobelli