Il suono costituisce l’unico legame esistente tra i vivi e i loro antenati defunti o i loro dèi. Nelle antiche cosmogonie questo collegamento sonoro corrisponde al concetto di “espansione della parola” e ha la sua radice in quella forza canora che, quale prima manifestazione di un pensiero, creò il mondo: il suono della vibrazione primordiale sacrificò se stesso per diffondersi progressivamente con un ritmo, in espansione spiraliforme, di vibrazioni sempre più alte e variate, e per trasformarsi a poco a poco in pietra e in carne.
Marius Schneider, Pietre che cantano, I
La poesia è sorgiva. Il suo dispiegarsi nella comunità linguistica è il dispiegarsi stesso della comunità al pensiero e al mondo. La poesia scandisce i primordi e l’ascesa. Poiché veramente è canto, la sua nascita è vicina all’origine del mondo, questa origine che, secondo le antiche cosmogonie, è una vibrazione fono-luminosa. Il canto è ciò che meglio traduce questa vibrazione, quest’onda sonora che non ha ancora nulla di differenziato né dunque di articolato: essa è il continuo. La parola umana vela quest’onda primigenia con segni discreti e articolabili. Perciò il canto che viene serbato nella poesia è il testimone linguistico più fedele all’originaria vibrazione indifferenziata che man mano ha preso corpo e differenze generando il cosmo quale noi lo vediamo in veglia.
Negli inizi ci sono l’epos e il canto. Il canto perché l’uomo riconosce la primazia dell’invisibile sul visibile, del continuo sul discreto, dell’inconcepibile sul concepibile, della vibrazione sulla parola. L’epos perché, parallelo all’attrazione canora per la vibrazione primordiale, il pensiero tenta di approssimarsi agli albori attraverso immagini e gesti. L’epos di una civiltà, il suo mito fondatore, è sempre anche un discorso cosmogonico e antropogenico. Entrato nel dominio del linguaggio e così del pensiero analitico, vedendo più mondi nel mondo, l’uomo tenta con lo stesso linguaggio la riunione di questi mondi: del cosmo, dell’individuo, della comunità. I tre non vanno separati perché, essendo immagini cangianti di un’unica realtà intuita ma inconcetta, non sussistono l’uno senza l’altro. La parola stessa non sussiste senza questa inseparabilità: l’uomo nomina il cosmo e lo nomina per altri. Senza cosmo non c’è oggetto da nominare, senza uomo non c’è soggetto che nomini, senza comunità non c’è comunicazione. È la poesia, in forma orale o scritta, che nelle civiltà nascenti si fa carico di intrecciare mondo, persona e comunità. Allora l’universo è dipinto a immagine dell’uomo e la battagliata armonia civile rispecchia quella dell’universo.
La concentrazione poetica espunge il superfluo ossia ciò che fa credere all’uomo di vivere nel caos. Stabilendo rapporti diretti, unendo con processi metaforici, coagulando in cellule ritmiche lo svariato spettacolo della manifestazione, la poesia crea ponti i più diritti e brevi possibili tra i mondi di cui si fa responsabile, delle creature, del soggetto, del noi. A garanzia dell’esattezza dell’ispirazione stanno le sue proprietà sonore, poiché queste sono ciò che più è vicino all’unicità della vibrazione primeva. Del pari, le narrazioni dell’origine tendono ad adunare i plurimi destini attorno a un fato, ad adunare le svariate forme attorno all’unica luce che ne permette la vita. I valori sonori della poesia sono la sua essenza, le immagini la sua veste. La parola della poesia vela e svela la realtà: la vela nominando e dunque separando le creature, la svela nell’unire le creature in un’unica onda sonora.
Le civiltà in decadenza abbandonano l’epos e il canto. L’inclinazione prosaica e il ripiegamento egotico sono i marchi delle comunità volte al tramonto. La prosaicità è l’atteggiamento secolarizzato di chi non intende più la vibrazione originaria: disconoscendone la primazia intellettiva ossia la vicinanza al principio, il canto viene smesso. L’egotismo prospera nella convinzione dell’inanità del mito, poiché la comunità non è più vista dal singolo come l’intimo fondo di risonanza della propria lingua e pensiero, ma come una macchina che lo produce e lo fagocita, autosufficiente e priva di legami necessari ossia ancestrali con il paesaggio. Il cosmo stesso è un aggregato di pezzi numerabili dove non ha posto il continuo della vibrazione originaria. L’agire simbolico, che mette insieme ciò che ora pare separato ma che sempre è unito, è affabulazione, perché tutto è in parti. La corrispondenza tra uomo, cosmo e comunità perde quindi di senso, e il parlante crede di dover parlare di sé e per sé. Quando questi atteggiamenti prevalgono nella letteratura di una comunità, letteratura è narcosi e comunità è superstizione.
Di là dall’epos, che in misura singolarissima è ancora la vena carsica della Commedia, il modo in cui il canto e l’unità del reale si mantengono vivi in civiltà complesse, che sentono insieme la ricchezza e la remotezza dei propri primordi, è la lirica. È il Canzoniere. Qui si onora una doppia necessità poetica: coagulazione e pulsazione. Coagulazione nel trovare uguaglianze sonore e metaforiche tra le singolarità creaturali. Pulsazione nel vivificarle, quando tutto pare mortalmente oggettivizzarle, con il ritmo e la lode. Qui la vanità del mondo e la vanità dell’io che guarda al mondo sono riconosciute, annullandosi mutuamente, in un medesimo gesto, nel canto che manifesta la gioia di una partecipazione, il joi trobadorico. L’io lirico è questa esile soglia su cui l’uomo è sempre in procinto di superarsi in una partecipazione. Superare la soglia è estinguere l’alterità, che sola fa percepire la vanità, poiché nessuno può negare l’intuizione che egli ha del proprio esistere.
Drastica, strenua, soave, la lirica accenna, non dà istruzioni, e accennando all’essenziale lo preserva. Il suo codice enigmatico protegge la conoscenza nei secoli in cui l’insipienza brandisce il pastorale e la spada. La lirica è perciò refrattaria alla volgarità. Quale conoscenza essa preserva? Soprattutto dell’onda vibratoria originante il mondo e il linguaggio. Con incantamenti sonori, appagandolo chiude l’orecchio rivolto all’esterno e lo volge all’interno, dove si cela quell’onda. Di più: essa preserva il desiderio stesso di conoscenza, poiché, con l’estrema concentrazione delle sue immagini, sprona al loro dispiegamento, alla loro traduzione, a un loro rinnovato germinare.
Federico Pietrobelli