Nel dramma vero, che a suo modo il poeta imita, l’attore è l’anima.
Plotino,
Enneadi III – 2, 17
Chimere e illusione.
Jan Lauwers
La stanza di Isabella – scena finale
L’arte teatrale rappresentiamocela come l’arte dell’abitare un luogo. Tale luogo può essere uno spazio fisico, un palco o un’altra area scelta; uno spazio corporeo, il corpo stesso o la maschera o l’abito; uno spazio musicale, un testo o una musica o un silenzio; uno spazio temporale, una durata più o meno fissa. Questi “spazi” sono disposti attorno a chi abita, all’anima dell’attore, come le squame carnose e concentriche di un bulbo di cipolla: nei capolavori, noi vediamo in effetti sul palco un unitario organismo vivente; ma sempre, come un cuore pulsante, ciò che richiama la nostra auscultazione rimane chi abita questi spazi stratificati. Come l’anima umana abiti questi spazi, a teatro, è stile. Dal lato registico, come gli spazi dispongano a un certo abitare, a teatro, è anche stile. Intendere poi tale stratificazione come una gerarchia che va dall’esteriore all’interiore, a teatro, è giustizia.
Il luogo dell’abitare teatrale è artificiale e deve dunque essere creato, attraverso le due operazioni che per l’uomo significano creare: separazione e trasformazione. Separare, ovvero porre un limite (arte) a ciò che non ha in sé limite (mente e cosmo), ad esempio segnando per terra col bastone un quadrato che sia il palco, scegliendo quelle parole per quella trama, definendo una sequenza di gesti, imparando la singolarità di tale personaggio (carattere o agente del fato che sia), il suo nome proprio. E trasformare, ovvero riaprire al senza limiti (mente e cosmo) ciò che vive di limiti (arte), ad esempio varcando le “pareti”, rimodulando nell’azione ciò che è stato fissato nella prova, aprendosi alla commistione primeva delle psichi, esperendo la generalità di tale personaggio, il suo anonimato.
Nel teatro “di prosa” il personaggio viene preso a exemplum dall’attore che ne deve produrre un’immagine in scena. Nelle forme sceniche che non riconoscono tale processo di personificazione, l’exemplum è in qualche modo la visione stessa che del mondo psichico e fenomenico ha l’attore o il regista. Personaggio o non‑personaggio sono due poli di una tensione che attraversa l’uomo in quanto persona, in quanto individuo che di sé ha contezza come microcosmo che specchia il macrocosmo, individuo esteriormente singolo e interiormente universale. E questa tensione è, in assoluto, la tensione stessa di ogni metamorfosi: confondersi all’altro per diventare sé. Il gioco del teatro e dell’attore sta nel disporsi a una molteplicità di altri, a una molteplicità di modelli, con cui confondersi per diventare sé. Per questo, quando non si assegni un personaggio a un attore, i tratti psicofisici dell’attore stesso rimangono un modello dell’immagine che egli opera “in scena”.
Tale relazione inesauribile tra modello e immagine è il Logos del teatro, e del teatro quale imago mundi. Essa è al cuore del teatro, che rammemora questo suo principio atemporale proprio nel darsi quale irripetibile esperibilità. A teatro non v’è testo, a teatro v’è lettura. Teatro è lettura, ed è dunque memoria. Il testo che l’attore legge non è il canonico testo teatrale, ma la lettura stessa che l’attore fa di un testo così come di un mondo. Testo e mondo a teatro sono logicamente antecedenti, il teatro li evoca e non li riproduce, perché esso produce hic et nunc il proprio testo e mondo, che sono le letture del testo e mondo saggiati nel suo provare. Perciò la differenza tra a soggetto o secondo copione dovrebbe essere, per l’intelletto osservante, inapprezzabile; come tra improvvisazione e interpretazione. Sono modi di lettura: i primi scelgono di leggere autonomamente il mondo di tutti; i secondi scelgono di leggere il mondo di tutti attraverso il testo di qualcuno. Credere che si esca dalla testualità nell’improvvisare ossia nel dialogare senza mediazione con il mondo è obliare il fatto teatrale stesso, ovvero la lettura, nonché il fatto che il mondo, per la mente, è sempre e anche un testo. Credere di farsi un proprio mondo seguendo senz’altro un testo è obliare che il mondo non ha quinte e che quello stesso testo che si segue, se perfetto, è una parte perfetta del mondo.
Perciò il teatro come arte dell’imitazione esiste e non esiste. Esso deve costantemente togliersi l’etichetta di riproduzione di una supposta realtà, di una copia orizzontale del mondo fenomenico, pena la riproposizione illusoria di un’illusione, e per fare questo deve esistere non in quanto arte dell’imitazione, ma in quanto cieco atto autogenerativo. D’altro canto, esso deve farsi incarnazione di una realtà che non è il mondo quale ci è dato vedere, ma quale ci è dato intendere, il mondo interiore, il mondo dei destini, il mondo dei fili delle Parche, e per fare questo deve esistere in quanto arte dell’imitazione, poiché questi fili, il teatro, come l’uomo, non li può produrre esso stesso. I fili sono da sempre filati. All’intelletto assetato di verità è offerto di tramarli visibilmente così come essi sono tramati nell’invisibile. La trama allora è una inventio nella misura in cui è una dispositio: il dramma, la finitudine dell’uomo, è già dato.
Perché luce da tutto ciò ne venga si ha forse bisogno, prima che di un’arte, di uno sguardo, e di un’arte che ne dia conto: si ha bisogno di far vedere, vedendo divinamente, ovvero per quello che è, nella sua propria finitudine, lo stesso dramma dell’umana finitudine. Per tale dramma, con sguardo mortale, l’opera scenica esteriore formula un messaggio più o meno socialmente utile o scandaloso. Per questo stesso dramma, con sguardo vitale, il capolavoro testimonia come, in un’azione e in uno spazio-tempo finiti, chimera e illusione sia la parola fine, proprio laddove tutto ci dice fine: perché la mente ha visto finire ciò solo che implacabilmente ha fine e passa, l’immagine del mondo.
Federico Pietrobelli