Non si introducono cambiamenti nei modi della musica senza che se ne introducano nelle più importanti leggi dello stato.
Platone
Repubblica, 424c
Rispetto a ciò che contiene, il luogo ha ragione di primo, perfetto, forma, superiore, salvatore, conservatore. Vediamo infatti che ogni creatura è inquieta fuori dal proprio luogo, e lo desidera, perché solo in esso trova quiete.
Meister Eckhart
Commento al Genesi, 1, 49
Un’economia è la legge di una casa, il nomos di un oikos. Se la casa dell’uomo è il mondo e il mondo è il luogo della circolazione tra il visibile e l’invisibile, umana allora è quell’economia fatta di scambi che rammemorano tale loro archetipo universale, lo scambio tra psiche e soma, tra cielo e terra, tra invisibile e visibile. È questo scambio che il sacrificio di una materia qualificata assicura nel rito e nell’opera. Così il canto, soffio e onda, è libato all’ascolto, intelletto e quiete. Così il gesto, moto e immagine, è libato allo sguardo, perno e trasparenza. Pura e dunque divina è infatti per l’uomo la possibilità stessa del canto e del gesto, dello sguardo e dell’ascolto. Divina è allora l’opera che chiami le potenze dell’uomo alla loro massima energia, al loro atto perfetto.
In una tale economia umana, l’opera d’arte è al cuore di una religione, di una re-ligo, nel legare i viventi. Se posta fuori dal rito, che è il luogo stesso di questo legare, essa accenna al rito quale suo luogo. Il rito è un trampolino sensuale e logico per concepire l’espressione quale offerta fatta all’inesprimibile; il proprio quale offerta fatta all’inappropriabile; il canto del singolo quale lode al tutto. Poiché è il creato stesso a chiedere di essere lodato per giungere a pienezza, in quanto l’uomo stesso, parte di esso, nel lodare giunge a pienezza. E noi vediamo che è nel grazie che l’uomo si perfeziona, agendo l’unione; mentre nella violenza, agendo la separazione, egli trova la mancanza.
Così l’arte è al cuore di una religione nel legare attorno ai propri capolavori le attenzioni dei singoli, altrimenti disperse nell’orizzontalità omogenea del Secolo. Come un bastone che tenendo il tempo sia anche un asse attorno a cui i desideri di conoscenza possano danzare insieme, secondo un ritmo che li coinvolga tutti essendo, nell’opera veritiera, ulteriore a tutti. Cambiare i modi musicali allora significa davvero cambiare le leggi di una comunità di viventi che su quei modi imparano a muoversi insieme nella psiche e nei corpi.
Analogamente l’arte è al cuore di una religione nel voler essere trasmissibile, poiché religione è legame come tra viventi, anche tra morti e nascituri. Trasmissibile di un’opera, più che la sua materia, ad esempio quelle parole di quella poesia, è la sua forma, la struttura organica sempre rinnovabile che quelle parole soltanto replicabili indicano, ad esempio un mito, una lingua, un ritmo. Trasmissibile diventa ciò che è sempre meno proprio e sempre più appropriabile, o ancora, al limite universale di questa proporzione inversa, anonimo, perché da tutti recepibile e da nessuno revocabile. Così il poeta invoca la Musa affinché gli dia memoria del canto la cui forma è proprietà della Musa. Così il nome divino nomina il senza-nome.
All’opposto, le avanguardie hanno ragionato su due astrazioni per gli uomini: il sistema assoluto e la singolarità assoluta, l’emergere della forma da un insieme imposto di regole oppure da un’imposta assenza di regole. Proposizioni astratte perché mai gli strumenti linguistici umani toccano i due poli esteriori entro cui gravitano, il completamente singolo, senza regola, e il completamente replicabile, solo regola. Vogliamo dire: anche le glossolalie sono sottoposte all’alfabeto di tale o talaltra lingua; anche la copia risente dello stato momentaneo di chi o cosa la esegue.
Mentre, ad esempio, un endecasillabo è trasmissibile, un endecasillabo è una struttura organica, in esso troviamo accenti dovuti (di quarta o sesta e decima) e liberi (tutti gli altri), che determinano rapporti mobili dentro rapporti stabili a specchiare l’armonia dell’ordine e dell’agilità. Di più, un tale verso nasce concretamente in chi riassapori quanto ordine e agilità vivano l’uno dell’altra. Più ancora, l’endecasillabo di per sé non conta nulla, se non come luogo riconoscibile, comunicabile ed ereditabile di queste tensioni.
Queste tensioni di ordine e agilità corrispondono alle tensioni chiamate tradizione e traduzione. Il duplice sentimento che una società coltiva della sua continuità con gli altri tempi, visti come modelli del suo, e della sua differenza, vista come modello degli altri tempi, è il sentimento che tramanda e traduce le forme in arte, nelle quali l’uomo si specchia. Ma un creatore può pensare anche in maniera opposta: è l’uomo a rispecchiare la forma artistica da lui creata, poiché questa è un modello per l’uomo, quell’uomo che è, se qualcosa è, anche un divenire imitativo. Così il creatore può e in un certo senso deve pensare, per pesare fino in fondo il proprio compito, che l’uomo diviene a immagine dell’opera.
È nello stesso senso che una liturgia, il nucleo “artistico” di una religione, non varia in funzione delle epoche, ma guida le epoche dall’una all’altra, ma marchia le epoche. Per cui l’epoca diviene a immagine di una liturgia. Per cui è anche vero che non si cambia la liturgia senza cambiare le leggi di uno stato. E mutando può avvenire che la liturgia, con la corruzione dei suoi Ministri, si allontani dalla perfezione e quindi dalla bellezza. L’arte allora, nel desiderio che le è proprio, di inesausto raffinamento, si estrae dalla religione, e si fa autonoma: si fa arte per l’arte. Il tempio viene sgomberato, levate le immagini, coperte le scritte, nascosti gli strumenti sacrificali, appianati gli altorilievi e le nicchie. Si dà una mano di bianco, la scena è liscia e neutra. Sul frontone, al posto degli dèi tesaurizzati in un museo, viene inciso in caratteri cubitali: stimolo. Non è il tempio razionale della ragione o il tempio naturale della natura. È un prefabbricato. È la scena archetipica di ogni fabbricare. È il tempio del fare. È il tempio dell’arte.
In tale luogo sempre può avvenire un incontro. Incontro, è questa la comunione nel suo annunciarsi. Però l’incontro stesso si offre a chi, nell’ornare il tempio di questo o quel simbolo oggettuale e intellettuale, o nell’entrarvi senza doveri particolari, veda interiormente tale spazio esteriore, ossia veda come a l’arte per l’arte corrisponda nella psiche l’io per l’io, espressioni entrambe di un’identica autonomia. Tale autonomia è un’egonomia, opposta all’economia umana, poiché in questa nessun io è per l’io.
Per un intelletto economico, l’inizio stesso dell’io è semplicemente impredicabile. Ad esempio fisicamente, attraverso tutte le nascite in tutte le generazioni che hanno reso possibile la mia, il mio inizio sta in un irreale zero dello spazio‑tempo. Razionalmente, l’inizio del mio dire sta in un silenzio indicibile, quindi comune e senza autore. Metafisicamente, l’inizio si dà in principio, ovvero ora e sempre. Questo significa anche che nascere non ha soggetto né tempo, e che nascere è un infinito; o che nascere ha tutti i soggetti e tempi insieme, e che io nasco è una sineddoche di tutto nasce. Io posso pensare io e pensare la mia differenza dal tutto, ma non posso viverla. Questa differenza è il pensiero di questa differenza, e tale pensiero è, quale differenza dal tutto che è la vita, morte. La vita che mi appartiene è pertanto la comunione con il tutto. Non conosco il tutto, perché ancora non conosco me stesso. Ma così come non li conosco separati, così forse li conoscerò uniti. E questo è, per l’uomo, il mistero.
Pertanto è la comunione a contare per i viventi; e religione e arte simbioticamente – quando la religione è l’arte di una vita e l’arte è la vita di una religione – formano il luogo umano e riflessivo di questa comunione; e questo luogo ha per nome proprio rito. Questo è il luogo in cui il mediatore che è l’uomo diventa uomo. Ma poiché l’arte è nell’artista che è il mediatore umano per eccellenza, il suo luogo è allora il rito. Allora solo in esso trova quiete, e la quiete dell’arte è la perfezione dell’opera.
Sia. Se alla luce del sole non siamo in grado di vedere e dire quale arte in quale religione, e se gli occhi sanno crescere anche nel buio, possiamo ancora vedere e dire che è notte e che, nel nostro spicchio di mondo, è il tempo dell’autoformazione. Senza rotte formalizzabili, veleggiando al largo, per guida abbiamo antichissime stelle (giacché il nord non muta a seconda dell’orientamento o disorientamento dei naviganti), e alti e distanti segnali di fumo che indicano dei lidi, i lidi umani, i lidi divini, i lidi dei riti. E noi possiamo immaginarli, quei segnali di fumo, quali i gesti e i segni stessi che dei capolavori ammiriamo e ricordiamo. Salgono da tronchi che qualche folle naufrago ha accatastato e acceso, prima di essere ripreso dai flutti e riposto sulla zattera globale, a ritentare il naufragio e l’opera; o prima di incamminarsi per la montagna.
Federico Pietrobelli