Ricordati che hai un’anima e che un’anima può tutto.
Cristina Campo
Intervista
“Contro” non vuol dire “ostile”. Solo che intorno a lui c’è un fluido di approfondimento e di grande silenzio.
Gottfried Benn
Deve la poesia migliorare la vita?
Due uccelli dalle belle ali, compagni inseparabili, hanno trovato riparo su un ramo dello stesso albero.
Uno dei due mangia il dolce frutto; l’altro, senza mangiare, guarda attentamente.
Rigveda, I, 164, 20
Come una naiade dal corpo trasparente è il mistero ancora tra noi. Un tempo coglierla senza permesso significava morte. Agli uomini si mostrava vestita del suo manto notturno costellato di spirali di gemme, si mostrò così ai Greci e ai Romani fino all’alba del Medioevo, quando quelle stesse gemme di sapienza vennero ritramate in forma di croce, e il manto prese il nome di divina Liturgia. Da sempre, con misteri si indicò un luogo, il luogo dell’iniziazione, ovvero della formazione più sottile, interna e alta che l’uomo possa concepire in una forma trasmissibile. Dismesso ciò, dismesso il manto cerimoniale che copre il corpo trasparente e fa vedere l’invisibile, il mistero nudo trova ancora un vestito nella parola, e il suo luogo è l’itinerario stesso della mente in cammino. Infatti ancora, in noi, il pensiero critico che giunga in fondo alle proprie premesse realizza che l’enigma che lo ha chiamato alla ricerca, se nel suo darsi si è manifestato come un problema per la ragione, nel suo dispiegarsi e approfondirsi si rivela un mistero per l’anima.
Tecnicamente, un mistero non è né un problema né un segreto. Ad esempio analizzare i composti chimici di una pulsar non è un mistero. Può essere un enigma se non c’è maniera di approntare i dati che servano a rispondere, a tal punto che l’oggetto dell’indagine ci chiami a mutare il nostro stesso modo di conoscere. È un problema se i dati sono scarsi o non articolati. È un segreto se qualcuno ha una risposta e non la diffonde.
Viceversa un mistero non è un contenuto discorsivo estrinseco a chi lo formula. Un mistero non è mai fuori di sé: un mistero è sempre un dentro, ma un dentro più dentro di noi. In questo senso interiore il mistero trova sviluppo, ed è apparentabile alla grotta dove stalagmiti e stalattiti crescono in una pura reciproca verticalità, figure del cielo e della terra, e dove gli antenati hanno lasciato segni per orientarsi. Il limite della grotta non è fisso, ma mobile, e segue i passi dell’uomo che la percorre. Se l’uomo avanza, la grotta si approfondisce. Non v’è limite fuori dall’uomo, perché l’anima può tutto. Il fermarsi è determinato dalle forze esteriori in quanto lo specchio della mente le riflette in ostacoli interiori. Così i soprusi degli agenti d’iniquità sono inaccettabili per la deturpazione delle creature e del corpo e della mente non in quanto cose, ma in quanto luoghi del mistero in cui l’anima si muove e s’inoltra. Miseria, bruttezza, ingiustizia sono le reti che immobilizzano quell’anima che non ha affilato le lame per difendersi dall’ambiente che vuole la sua cattura. Tale ambiente tradizionalmente ha nome Secolo. Reggere, contro il Secolo, per amore del Secolo, non è allora un paradosso – infatti “contro” non vuol dire “ostile”.
Il pensiero critico si forma secondo tale contro o tale ostile, secondo la strada che porta in alto o quella che porta in basso, la strada che porta a liberarsi dalla critica, contro il Secolo, o quella che porta a incarcerarsi nella critica, ostile al Secolo. Quest’ultima via è dello scetticismo “assoluto”. Per le cose terrene, nelle tenebre, il dubbio è una luce. Per le cose celesti, nella luce, il dubbio è una tenebra. Il dubbio nelle questioni storiche, materiche, analitiche può e deve aprire le porte all’ascolto dei motivi eterni, ideali, sintetici. E questi, risuonanti da sé, per sé e in sé, non domandano che ascolto, che domanda di superare ogni dubbio, per farsi aperti ovvero imparziali; laddove il dubbio è genuinamente parziale.
Ancora, il dubbio radicale, nel punto estremo del suo procedere per dissezione e divisione, in cui più nulla c’è da analizzare se non l’analisi stessa, nulla da pensare se non il pensiero stesso, vede finalmente in sé medesimo la parzialità ovvero la relatività che aveva supposto nel rapporto tra pensiero e mondo. Perché o il pensiero e il mondo sono omologhi, partecipano cioè dello stesso Logos, e il pensiero è a immagine di quel principio la cui immagine è il mondo stesso; o il pensiero e il mondo sono eterologhi, due rette euclidee parallele che mai si toccano – ma allora perché pensare, se non c’è nesso necessario tra parola e cosa? o più semplicemente, perché rispondere a chi chiama il mio nome?
L’errore, l’eterologia di mondo e pensiero, per il mortale che tale sa di essere, è nell’occhio, non nella luce. Possiamo essere miopi, presbiti, astigmatici, questa è la nostra finitudine. Ma questo stesso è il paradosso insolvibile e vivificante che abita l’uomo: la comprensione della propria finitudine. Quale meraviglia è che un essere finito pensi la propria finitudine. Così una tenebra si conosce conoscendo la luce. Così un parlante può dire dubbio, relatività, errore solo intendendo, anche confusamente, ciò che dubbio, relativo o erroneo non è, solo situandosi di qua o di là dal dubbio, dal relativo e dall’erroneo, in un qualsiasi giudizio egli dia. Tanto l’omologia di mente e cosmo domanda che di una cosa sola si dubiti strenuamente: l’io, o meglio: la differenza tra l’io e il mondo.
Questa strada ascendente, che vede nella critica della critica l’esito naturale di ogni critica radicale, porta all’ascolto. L’ascolto è per l’uomo l’inizio della concezione, un fluido di approfondimento, con cui vagliare il fondo e in tal modo concepire ciò che è necessario costruire, ovvero ciò che non cessa. Ciò che non cessa è ad esempio il sapere, che si regge oltre i regni, al contrario del potere, che passa con i regni. Ma il sapere che non cessa, essendo ogni sapere specchio del proprio oggetto, è il sapere di ciò che non cessa: del continuo e dell’uguale, di ciò che, nel continuare sé, vive.
Ad immagine del sapere, la costruzione stessa, per essere viva, dev’essere in qualche modo continua. L’opera stessa allora è nell’operare più di quanto lo sia nell’operato. L’opera vitale, per le creature, è il loro sempre.
Così vivono i due bellissimi alati dell’albero vedico, di cui si narra al presente, in questo tempo senza tempo, che l’uno guardi l’altro mangiare il frutto. Che cos’è il frutto? Il luogo oggettivo del sacrificio e della contemplazione, ovvero, per l’uomo interiore, i due nomi propri della vita. Chi genera e rigenera il frutto perché non abbia termine il luogo della vita? Una prima risposta è: l’alato che contempla, perché in esso permane l’immagine del frutto. Una seconda è: l’alato che mangia il frutto, perché esso fa sì che l’albero non cessi la sua opera. Un’ultima è: l’albero stesso, che non cessa la sua opera. Il frutto è un luogo dove tutto può avvenire, e dove nulla per se stesso avviene. Però quanto dev’essere dolce perché vi ritorni il desiderio, quanto fluido di approfondimento e di grande silenzio deve concentrarsi a generarlo. Tali sono i capolavori dell’uomo.
Federico Pietrobelli