… grazie al santo splendore del sole,
e ai misteri di Ecate e della notte,
e tramite tutta l’azione delle sfere,
per cui esistiamo e non esisteremo più …
William Shakespeare,
King Lear, I, 1
Re Creso si recò a Delfi chiedendo se fosse fausto o meno partire in guerra contro i Persiani. La Pizia rispose, da in mezzo al turbine di scintille e aliti: “Se partirai in guerra, un grande regno cadrà.” Il lidio non si domandò quale fosse quel regno che sarebbe caduto, partì in guerra e il suo regno cadde. L’oracolo aveva parlato all’interno, ma Creso era all’esterno.
Fato e destino stanno dentro e davanti a noi come le parole limpide e oblique della Pizia: qual è il regno che indicano? Perché l’immagine del mondo passa e le parole di bocca in bocca passano facendo da bandiere a regni semantici diversi, e tutto ciò, tutto questo sconfinare e riconfinare, in questo caso, in un’estrema tensione: poiché fato e destino sono i cardini verbali della relazione tra il tutto e il singolo, tra il macrocosmo e il microcosmo; sono insomma termini metafisici fondamentali. Dire oggi cosa essi possano, per noi, significare, vuol dire tradurre nella nostra lingua e mentalità dei termini che di per sé poterono, come possono, voler dire questo e quello, ma proprio tradurre – questa prassi fra tutte recidente e obliqua – vuol dire scegliere tra questo e quello.
Pertanto diciamo che se fato viene da fari, dire, e se ancora sappiamo concepire un dire irriducibile a un salotto reale o virtuale, esso rappresenta il dire divino. La Parola divina, nell’ottica occidentale debitrice di Giovanni, è unica ed è in principio: è il Logos. In principio erat Verbum: continuamente (in principio) Dio (erat, l’essere) dice il cosmo (Verbum). Ad esempio, con la scienza, noi pensiamo che sia una sola la legge cosmica, perché uno solo il Logos dell’universo. Se questo Logos è la Parola divina, e il dire divino è il fato, allora il fato lo possiamo intendere come la necessità universale, come il povero e bruciante adagio: così va il mondo. È come va l’universo totalmente, in tutte le sue interne relazioni che continuamente generano e rigenerano il suo imperscrutabile ordine. Fato è l’essere universale nel suo continuo avvenire.
Mentre fato viene da dire, destino da destinare e quindi da stare. In effetti, come il dire non è contenibile in un certo luogo, se non, per un dio, nel luogo senza luogo che è l’universo, lo stare del destino chiede un luogo. Di conseguenza, la necessità che nel fato concepiamo come universale, nel destino la concepiamo come individuale, legata dunque a un luogo e, in particolare, al luogo che è l’individuo umano. Il destino dunque è il ciò che essendo avviene, non nell’universo, ma nel cammino del singolo all’interno dell’universo.
Il beato Er alla fine della Repubblica di Platone – nel discorso mitico che come sempre è il nocciolo dell’insegnamento platonico, laddove il dialogo è l’esaurimento metodico di tutte le possibilità del raziocinio –, ebbe la più pura e lucente visione di tutto ciò: mentre le Sirene cantano il fato, l’armonia delle sfere che consuonando determinano la vita del cosmo intero, le tre sorelle vergini, le oscure Parche, filano immerse in questa sinfonia dei mondi il corso della vita umana, il destino del singolo mortale. Le Sirene cantano il fato dell’universo che le Parche ascoltano nel filare il destino dell’uomo.
Ma – un ma tremendo tanto è misterioso – noi abbiamo il libero arbitrio, possiamo scegliere, ad esempio tradurre è scegliere. In tutta questa necessità macrocosmica e microcosmica, la libertà dov’è? Una risposta intellettuale a questa domanda è: nella consapevolezza. In un certo senso, solo Er è libero, perché egli solo ha visto come vanno le cose che non possono andare altrimenti. Infatti libera è la scelta consapevole del proprio valore. Per cui la libertà è prima di tutto una luce di conoscenza. In secondo luogo, una responsabilità, nel senso che possiamo rispondere liberamente di ciò che compiendo comprendiamo.
Perciò, perché la comprensione chiede un soggetto, dobbiamo aggiungere un anello a questi due anelli concentrici che sono il fato e il destino, e che propriamente li inanella, o davvero li incrocia. Tale anello è la persona. Quando parliamo di Er parliamo infatti di una persona. Solo la persona, questo apice della teoresi cristiana, questa lux hominum, questo anello tra destino e fato, tra individuale e universale, sa rispondere. La persona sa di incarnare individualmente ciò che individuale non è. La persona umana sa di essere un uomo che è l’uomo, e che ogni uomo è l’uomo, e che l’uomo è sempre un uomo. Così lo stile, il doppio espressivo della persona, incarna attivamente un linguaggio che non è proprietà di nessuno. E come lo stile è scelta, solo la persona, nel suo comprendere di essere manifestazione individuale dell’universale, di essere un destino che riflette il fato, sceglie, e innanzitutto sceglie tale consapevolezza.
Scegliere, è questo che l’artista continuamente fa: se non i segni, almeno i mezzi, se non i mezzi, almeno i modi, e così via. Perché la forma espressa, ciò che impegna massimamente l’artista, è singolarità. È un luogo, così come lo è il destino. Per questo, solo chi ha il sentimento del destino può avere il sentimento della forma. L’artista traccia il suo luogo che è il suo stile. In questo spazio, per quanto piccolo, per quanto fragile, ma estremamente preciso, abita. Qui può rigenerare una forma attraverso una materia, un’essenza attraverso una sostanza, un oltre attraverso un qui.
Ma di più: se egli capisce la singolarità di questo luogo, la sua unicità, è nella misura in cui capisce la totalità, ovvero il senza-luogo, in cui questa singolarità è immersa e da cui emerge. Per cui se l’espressione riguarda il luogo e il destino, la comprensione dell’espressione stessa come isolamento, elezione, separazione, è la comprensione dell’universale e del fato, di ciò che è la comunione di tutto con tutto, e dunque di ciò che non è in un luogo, se non nel luogo senza luogo che è l’universo.
Questo sentimento fatale, di comunione di tutto con tutto, in cui la formica partecipa della frana e la frana della pianura, lo assaporiamo ancora in Shakespeare, dove il sole, Ecate, la notte, le sfere e mille altri ministri dell’aria e della psiche, cooperano nel filare il corso della vita del singolo, che si staglia sgargiante, di sangue o di luce, nel bel mezzo della rete vitrea e tagliente della storia in cui gli uomini sono irretiti, specchio deforme del cristallino ordine che governa segretamente la natura, specchio deforme dei cieli mossi dal canto delle Sirene. Con il solito gusto per la concisione e limpidezza, gli Antichi chiamavano queste impalpabili mediazioni dall’universo all’individuo e viceversa con nomi propri: Sole, Ecate, Notte, Sfere.
E proprio questo è arte: trovare nomi, ovvero esprimere. Trovare una lingua. E questo trovare anche è il destino: una lingua è un destino. Te ne è assegnata una attraverso il sangue e la terra: eppure la tua, è un’altra ancora, è solo tua. Ma tu sei finito e mortale: perché affinarla, se è già solo tua, e se tutto è a tempo, se tutto sparirà? Ma sorge un’altra domanda: da dove viene questa tua lingua? Un intelletto libero risponderebbe: da un silenzio che è tuo quanto lo è di un’alga o di una nube. Capire il silenzio che permette la lingua, questo è sciogliere il nodo in cui crediamo che termini il destino quando lo pensiamo mortale, questo è rivedere il filo del destino per quello che è: una linea minima e contigua all’ordito senza bordi del fato.
Specchio dell’ordire cosmico, anche l’operare dell’uomo è un tessere. Abbiamo un filo che è nostro, e moltissimi fili che non sono nostri: più li intrecciamo al nostro, nella conoscenza, più diventano nostri; più intrecciamo il nostro agli altri, nell’espressione, più il nostro diventa di tutti. Così l’artista che si pensa io, comporrà il tappeto dell’opera col suo solo filo, ingarbugliandolo monotonamente su se stesso. L’artista che si pensa uomo, comporrà il tappeto col suo filo e dei suoi simili, e i suoi simili si rispecchieranno nei vari toni di un medesimo colore. L’artista che si pensa mediatore tra il cielo e la terra, comporrà il suo tappeto coi fili di tutte quante le creature vivano tra cielo e terra, nella misura delle sue forze, e l’uomo vi ammirerà la miniatura di ciò che non può vedere dritto nella sua verità totalmente intercomunicante; vi contemplerà il luogo del senza-luogo; vi vedrà un intreccio di destini che manifesta intelligibilmente il fato.
Federico Pietrobelli