I dí miei piú leggier che nesun cervo
fuggîr come ombra, e non vider piú bene
ch’un batter d’occhio, e poche ore serene,
ch’amare e dolci ne la mente servo.
Misero mondo, instabile e protervo,
del tutto è cieco chi ’n te pon sua spene:
che ’n te mi fu ’l cor tolto, e or sel tene
tal ch’è già terra, e non giunge osso a nervo.
Ma la forma miglior, che vive ancora,
e vivrà sempre, su ne l’alto cielo,
di sue bellezze ognor piú m’innamora;
e vo, sol in pensar, cangiando il pelo,
qual ella è oggi, e ’n qual parte dimora,
qual a vedere il suo leggiadro velo.
Petrarca
R.V.F. 319
Il Frammento 319 è un sonetto regolare, di quattordici endecasillabi, con quartine a rima incrociata e terzine a rima alternata, scritto in morte di Laura terrena e in ricordo di Laura celeste. Notiamo inoltre che non siamo di fronte a un discorso messo in versi, ma a un discorso fatto di versi. Poiché, con Petrarca e pari, il verso è incommensurabile a un’unità della tipografia. Il verso è il memorabile in un’unità di ritmo. Il verso è il dicibile in un’unità di respiro. Memorabile e dicibile trovano unione nel canto: il verso è l’unità di senso del canto.
Un tale verso domanda modi espressivi precipui, ad esempio: il pregio dell’inarcatura sta nella completezza del verso che si inarca. È infatti intensificato quel soffio che è chiuso e riaperto, ma è propriamente chiuso quel soffio per cui senso fisico e intellettivo si fanno uno nel terminare il verso, per cui ritmo, sintassi e significato coincidono nel sospendersi reciprocamente. Altrimenti detto, l’elemento di discontinuità (l’inarcatura) si fa forte dell’unità sia parziale (dei due versi o emistichi) sia totale (dell’unica frase), ovvero del continuo che il discontinuo ha sospeso per rivelarne le unità logiche interne. Unire due unità logiche attraverso un silenzio (fonte stessa della logicità) è un’operazione sovralogica, sovraconscia, sovrarrazionale; unire due parti alogiche attraverso una pausa è un’operazione sublogica, subconscia, irrazionale. Entrambe sono vie aperte all’uomo. La prima è quella seguita da Petrarca. Così in
… e non vider piú bene
ch’un batter d’occhio …
o ancora in
… e or sel tene
tal ch’è già terra …
il primo emistichio è in sé conchiuso (non essendo, mettiamo, e non vider più / bene … , né e or sel / tene … ), con mirabile effetto ironico dell’emistichio che segue l’inarcatura. O ancora:
I dí miei piú leggier che nesun cervo …
che è un verso perfetto, uno dei più belli ed enigmatici della poesia volgare europea: questo nulla che emana dal nesun è direttamente proporzionale all’ellissi del verbo che servirebbe a mettere il punto, proprio l’essere – ma l’essere non è, il canto s’inarca:
I dí miei piú leggier che nesun cervo
fuggîr come ombra …
e l’emistichio continua la fine evanescente del primo verso in un divenire mirabile per letteralismo e metaletteralismo: fuga e ombra incarnano la corsa e del tempo e dell’animale e del primo verso.
Idealmente, in una poesia compiuta ogni verso è isolabile e memorabile. Per esempio in
… ch’amare e dolci ne la mente servo …
la conoscenza del sostantivo di amare e dolci ci è quasi secondaria rispetto al gusto che già due aggettivi, tanto tipicamente e sorprendentemente appaiati, lasciano alla mente, invogliandola a serbarli.
Quanto l’emistichio e il verso, tanto la strofa tende all’uno: la strofa è un’unità di tensione intellettiva e musicale, laddove il verso ne è il tratto manifesto. Ad esempio in
Ma la forma miglior, che vive ancora,
e vivrà sempre, su ne l’alto cielo,
di sue bellezze ognor piú m’innamora …
la rima ancora innamora chiude, nella sua straordinaria semplicità, l’itinerario circolare del pellegrino amoroso. Essa è il simbolo linguistico del suo viaggio concentrico: come una mano che percorrendo la collana temporale dell’ancora tocchi e ritocchi il pendente eterno dell’innamora.
Di più, in poesia si può dire che ogni parola sia un pendente. Tanto la parola ha per il poeta una vita a sé; né essa è uno dei pioli per costruire la scala del ragionamento; essa è sempre in cima alla scala, ne è l’ultimo piolo, mentre la scala è la struttura ritmica che ne sostiene il peso semantico e d’incanto. Ecco
… velo.
questo bisillabo in cui il sonetto termina e si riassume: ombra e fuga, mondo e morte, forma e cielo, tutto pare e spare, e tutto il nostro vedere e cantare altro non è che vedere e cantare un velo.
Perciò è lecito e doveroso chiedersi: questa pausa è significativa? Leggiamo
… e vo, …
due monosillabi, breve e lunga, carica e slancio, quindi la virgola, la pausa, come il volo del piede che separa due orme.
Sillaba, strofa, virgola, silloge, il poeta continua a cambiare lenti, macroscopie e microscopie si avvicendano nel suo lavoro, svolto con questa imperiosa consapevolezza: il microcosmo riflette il macrocosmo e viceversa. Questa consapevolezza, che l’intelletto dona all’operare e che da esso riassorbe ricco di sensi, si fa compassione: è il modo stesso in cui patire il mondo, è il già esperito e pensato che permette l’opera, è ciò che forma la persona, quell’unica persona che elabora, quale suo doppio espressivo, uno stile. Nel lavoro, la consapevolezza del rispecchiamento tra micro e macro si traduce in fiducia: completare un verso è già completare una poesia. Ogni parte compiuta corrisponde all’unità complessiva, essendo unità essa stessa: così l’uno corrisponde all’uno. Perciò il peso specifico di una parola, di una virgola e di una stanza, in poesia, è uguale.
Tale autonomia delle parti è la regola razionale del gioco compositivo. Ce se ne libera, dando propriamente vita al gioco, nella misura in cui la si è fatta propria. D’altronde l’anarchia compositiva è illusoria, poiché l’espressione è sempre formale e non può sfuggire alle leggi che presiedono alla forma, di cui l’estrema e la minima è: la forma è limitata. Per cui il gioco compositivo è il gioco dei limiti, coi limiti, sui limiti, che possono essere spostati e ridisegnati, mai cancellati. L’illimitato è informale. Non v’è forma illimitata, poiché questa non è più una forma. Niente, perché ogni ente è forma, è illimitato se non l’illimitato.
Questa intuizione intellettiva è la base della regolamentazione in fatto di arte, della retorica, della metrica e di tutte le esigenze di rigore e armonia, tanto ancestrali quanto nuovissime, nel comporre. L’artista si ripete il sillogismo: io lavoro con le forme, le forme hanno limiti, quindi lavoro con i limiti. Ed è lavorando il limite che l’uomo ne scopre la qualità interiore: che il limite è una soglia tra ciò che ha limite e ciò che non lo ha.
Se usare o meno un sonetto ancora oggi, importa solo la consapevolezza del poeta di sondare un alveo sotterrato, con acque che hanno da essere potentissime per affiorare, tanto da smuovere, deformando e riformando, le terre stesse. E se da un canto una forma tradizionale non più compresa diventa una superstizione – da letto che era diventa terra che copre, che sta sopra la corrente viva della lingua –, dall’altro vale un’altra osservazione: la letteratura e tutte le sue forme tradizionali hanno formato la nostra lingua. Non capirle è non capire che lingua abbiamo per operare.
La tradizione è il vivente, è il continuo, ciò che ininterrottamente lega le genti e le generazioni. In arte, la tradizione trova voce non in chi calchi autorevoli perché più o meno vetusti modelli, ma in chi riconosca al proprio linguaggio una medianità tra la memoria e la metamorfosi, che sono i fusi per cui si tesse la relazione tra la mente e il mondo. La tradizione è una metamorfosi che rammemora e una memoria in divenire. Senza memoria, l’illusione progressista inquina la volontà di mutamento, inducendo a pensare la creazione umana al di fuori dell’eredità. Senza metamorfosi, la riproduzione meccanica limita il ricordo al suo aspetto quantitativo, all’accumulo di informazioni, obliterando il suo aspetto qualitativo, l’informare queste stesse informazioni.
Di tutto ciò, attraverso i suoi giochi di ripresa e rottura, di piuma e di spada, tutta l’arte, come la poesia, è testimone superficiale e fondamentale. Lo è la poesia perché in essa ogni parola è un fondamento: qui non vi sono tetti o muri, vi sono solo fondamenta. Ma esse, affinché si dia fruizione, devono essere visibili, all’aria, non sotto il suolo ma al suolo. È questa la superficie fondamentale del lavoro poetico.
Qual è la casa che si erge su di essa? È la lettura. È la metamorfosi. È la memoria.
Federico Pietrobelli