Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito…
Dino Campana
Immagini del viaggio e della montagna
Trovate questa pietra troppo dura, agognate la mollezza della cera e l’obbedienza dell’argilla! Ma seguite il cammino del vostro pensiero irritato, a breve incontrerete quest’iscrizione infernale: “Niente è tanto bello quanto quello che non esiste.”
Paul Valéry
Au sujet d’Adonis
Il Logos è la fonte silenziosa del fiume linguistico. È in questa fonte, in cui quieto è lo spirto, e in cui si offre il silenzio, che avviene primariamente il vigilarsi, per cui udiamo i muti carmi che troveranno voce nel verso. Specularmente allora la completezza materiale, esteriore, in breve linguistica, non è la perfezione, come il fiume senza la fonte non è perfetto. La perfezione è insieme linguistica e sovralinguistica: è completezza formale del simbolo in quanto espressione dell’irriducibilità dell’essere al segno – della fonte al fiume. Questa completezza formale del simbolo è nelle potenze dell’artista che abbia coscienza di tale irriducibilità. Si intende allora il simbolo e si abbandona la disputa attorno alla sua apparente parzialità: sempre e ovunque, una farfalla ha bisogno di tutto il cielo per volare. Evocare una farfalla perfettamente è allora evocare tutto il cielo.
Così linguistico e sovralinguistico sono i due punti di vista opposti e complementari che l’opera invoca. Per il primo, l’assioma è che ogni parola è espressione e che ogni espressione è formale. Perciò l’artifex vive come una passione la riflessione sulle forme, e sulle forme ricevute, ricordando che si eredita tanto di un sonetto quanto di un alfabeto. L’oblio di ciò in arte è vanità. Fai! questo imperativo mercantile, è il contrario dell’imperativo intellettuale, che dice: Medita! O ancora: Sii originale! questo imperativo conformista, è il contrario di quello magistrale, che dice: Sii originario!
Origine e fine della poesia è la comunione, l’attimale superamento delle forme di io, tu, mondo. Qui è il silenzio da cui sgorga e in cui risprofonda il canto e il pensiero umano. Il poeta sommo conosce questo mistero: il mistero della comunione attraverso la forma. Se grande, conosce la forma, meno la comunione. Mediocre, conosce la comunione, meno la forma. Misero, non conosce né forma né comunione, ma solo un bisogno di espressione, parente dell’istinto. L’istinto però è il prevedibile: ripetizione, riproduzione meccanica, emulazione inconsapevole, avvengono tutte nel suo segno. Mentre la riflessione determina l’isolamento, l’isolamento nella lingua determina lo stile, lo stile determina il senso del limite, il limite determina l’intuizione dell’illimitato.
Così linguistico e sovralinguistico sono raffigurabili come due terre confinanti nell’alta catena della poesia; due terre di cui la seconda mai è recintabile, al contrario della prima, che lo è sempre. Certo, il recinto metrico, quello retorico, la forma chiusa, magari ereditata, comporta fatica, il marmo è duro da lavorare, la cera è più molle, l’argilla è più duttile, ma perché non l’aria allora, e perché non il solo pensare, ma in fondo, dice la saggezza formale all’informale, riflettici bene, non pensi che niente sia tanto bello quanto quello che non esiste?
Un esteta un po’ diverso da questo cogito censore, un esteta che non percepisce nella forma né il principio né il fine della stessa forma, si trova a questo punto a chiedersi: cos’è quello che esiste? Se pensa che non si inventino teorie per giustificare la propria arte, ma che l’arte debba esprimere quella filosofia perenne di cui si entra in possesso nella misura in cui si abbandona ciò che è proprio, allora il nostro stravagante esteta potrebbe dirsi: quello che esiste non è formale. Forma è espressione di ciò che è ulteriore alla forma, e che la genera, e che propriamente esiste. Il silenzio, il senza forma, è dove inizia e finisce la parola, la forma. Il silenzio trabocca nella parola e perpetuamente la riaccoglie. Così fa l’intelletto con la prassi. Così in arte, l’intuizione intellettiva genera l’intuizione formale, la quale a sua volta la rigenera, e così via.
Ad esempio la rima. Se il cosmo è per la mente una selva di corrispondenze aritmetiche ovvero musicali tra cose non contigue nello spazio-tempo, la rima ne è un’elegantissima e appropriatissima traduzione: tanto bene al vigilarmi intellettuale rispondono i carmi sensuali. Viceversa, dal punto di vista formale, dove all’io … solo fa eco il solo / ombra, non è altro che la rima (poiché i due solo sono diversissimi di senso) a creare il chiasmo tra l’io e l’ombra, e così a offrire un sensibile luogo di meditazione.
Federico Pietrobelli