… e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi
L’infinito
L’ente manifesta l’idea. Parimenti, la parola manifesta l’idea. Tale è il demiurgico chiasmo dell’ente e della parola: la parola esprime l’idea espressa dall’ente, l’ente esprime l’idea espressa dalla parola.
L’enigma della significazione della parola è dunque l’enigma della sua relazione con l’ente non in via diretta, orizzontale, ma per così dire in via mediata e obliqua, attraverso lo specchio dell’idea. L’idea è il luogo mentale del rispecchiamento della parola e dell’ente. La loro unione in una immagine è possibile soltanto nello specchio che è la mente dell’uomo.
Più una parola si avvicina alla forma della cosa attraverso la propria forma (ad esempio se acqua fosse più fluida, con più elle), più parola e cosa si trovano essenzialmente vicine nel proiettare la loro immagine nello specchio mentale, più i loro tratti ideali coincidono. La mente che rispecchia in sé unitamente parola e cosa, se riflette su questa immagine, vede che questa immagine presente nel suo specchio mentale è l’idea stessa.
D’altronde il gioco degli specchi nella mente è indefinito, perché il pensiero può pensare il pensiero. È in tale gioco che affinandosi la mente affina la comprensione dell’idea. Di più, l’affinamento stesso è inesauribile perché l’idea è irriducibile al simbolo linguistico, per quanto esatto esso sia, con cui la mente può intenderla. L’universo, l’idea che l’ente universo manifesta, è irriducibile alla serie fonetica universo. Altrimenti l’universo starebbe in questa parola, mentre pronunciata o meno, in tal o tal modo, dal re o dallo schiavo, sempre l’universo segue il suo corso. Ciò implica, poiché l’ente esprime l’idea, che l’ente non può essere esaurito dal segno; ovvero, che il linguaggio non esaurisce l’essere.
Il segno linguistico è arbitrario e può essere più o meno adeguato all’idea. Di contro per l’ente tale apprezzamento sembra possibile massimamente se è un artefatto, minimamente se non lo è. Di un’opera d’arte si può apprezzare la conformità al modello intellettivo: la Trinità di Rublëv esprime magistralmente la Trinità. Mentre oscuro è dire se questo o quel cavallo corrisponda meglio all’idea di cavallo. Tale domanda è infatti intellettivamente priva di senso, perché qualsiasi cavallo è il vivente cavallo, e non un esemplare di una categoria, com’è invece per l’analisi razionale.
Ci si può nondimeno chiedere se cavallo sia parola adeguata a esprimere il cavallo. L’arbitrario del segno linguistico è per l’uomo libero la sua possibilità di adeguamento all’idea. È l’idea a non essere arbitraria, essendo universale. In questo senso, non v’è una luce di candela e una luce di Antares. La luce è la luce. Le sue caratteristiche, più o meno rossa, più o meno intensa, non sono ideali ovvero universali, ma manifeste ovvero contingenti.
Per questo sensuale e contingente darsi del divenire all’uomo, l’uomo ha forgiato degli strumenti che non sono primari nella sintassi, nell’ossatura del linguaggio, e che sono gli attributi; ma anche avverbi, verbi, connettori, preposizioni e articoli sono tutti secondari in questa ossatura. Noi siamo degli uomini è sempre riducibile, con penetrazione simbolica, a uomo. Il cuore del linguaggio è sostanziale, è composto di sostantivi. Sono i sostantivi che primariamente esprimono le idee e che reggono fondamentalmente il linguaggio. Ciò significa anche: il cuore del linguaggio è ideale.
L’arbitrarietà del segno linguistico riguarda l’arbitrarietà della conoscenza razionale, analitica, discreta, che discerne ciò che è manifesto, analizzabile e finito. La ragione è arbitraria perché è volontà. Essa è libero arbitrio nell’uomo, che vuole dire tal cosa in tal maniera. Tale è la prassi discrezionale del cogito. Non avere coscienza del limite e del simbolismo intrinseco a una tale operazione, può indurre a fare del linguaggio un padre eterno e della linguistica un’angelologia; in altri termini, a confondere il Logos con il linguaggio. Questa confusione è madre del linguismo in filosofia. Però il Logos, sovrarazionale ovvero sovralinguistico, è irriducibile al linguaggio. Il Verbum non è né la parole né il mot. Da nulla esprimibile e da tutto espresso, il Logos è l’unità logica delle relazioni tra tutti e in tutti gli enti. Ogni formula per esso è carente. Esso è la croce: ciò che lega il visibile orizzonte all’invisibile asse. E sempre la parola appartiene al visibile orizzonte, poiché essa è una manifestazione, essa è un’espressione.
House, maison, casa sono tutte manifestazioni di un’idea che ne permette la reciproca traduzione. Sicché l’idea è il ponte su cui la mente traduce la parola da una lingua all’altra. Ad un primo sguardo, è il numero di tali manifestazioni, la loro moltitudine, a determinarne l’arbitrarietà. E noi potremmo, fondatori di una lingua di una nuova città, dire che la casa ha bisogno di T di sostegno e di M di riempimento, perché T è suono della solidità, M dell’armonia, e avanti. Più riusciamo a far coincidere la percezione sensoriale, tal o tal suono, con una rappresentazione razionale coerente, tal o tal significato, più ci avviciniamo a una lingua edenica.
Eppure, ad uno sguardo interiore, house, maison, casa non appaiono né molteplici né arbitrari. Ad esempio, un boscaiolo sotto la Serenissima dice vo casa (vado a casa), né ha altro modo per dirlo, non lo sa, gli è inutile, non è. Singolarmente, intralinguisticamente, sincronicamente, insomma realmente, non v’è arbitrarietà nel segno casa, poiché nient’altro che casa quest’uomo ha per dire casa. Parimenti un filologo poliglotta non usa né più lingue, né più tempi della stessa lingua in una stessa parola. Non usa houson, ma sa che house e maison sono egualmente necessarie nelle loro comunità. Non usa domsa, ma sa che domum e casa sono egualmente necessarie nei loro tempi, ovvero nella loro vita. Forse è già l’uso corretto della propria lingua l’uso sacro della lingua, poiché solo esso è l’uso vivente.
Vivente è ideale. L’idealismo non ideologico consiste in questo: sia i segni che gli enti sono simulacri di idee. Il loro congiungersi, il nominare corretto, non è concepibile in un rapporto immediato, ma mediato: l’idea è la mediazione, è il fulcro intellettivo attorno a cui si opera o meno l’unione del segno e dell’ente. È il loro fulcro vitale.
In tale orizzonte teoretico che resta, perché parole abbiamo per parlare di parole, inesauribile, la poesia serba una funzione specifica: la poesia è sfida all’arbitrarietà del segno linguistico. Essa, nella sua perfezione, è necessità del segno. Per esserlo, la sua parola deve conformarsi alla forma universale dell’idea, che però non è una forma linguistica. Conformandosi all’idea, essa si conforma alla creatura che a sua volta esprime l’idea. Però il vivente non è mai analizzabile completamente, ed esso sposa solo in parte la necessaria articolazione del linguaggio, che ha basi analitiche ovvero discrete. Il vivente invece è unitario, è continuo. Così in poesia, la vibrazione sonora che determina gli armonici del senso, è il mezzo di traghettamento dall’esprimibile analisi del mondo discreto, verso questo inesprimibile e vivente continuo in cui la mente può continuarsi, verso questo mare in cui naufragare.
Federico Pietrobelli