Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio. L’essere che realmente è, incolore, informe e invisibile, occupa questo luogo.
Platone
Fedro, 247c
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra
Dante
Par. XXXIII, 55-56
Che il cielo sia definito dalla sfera delle stelle fisse, con i loro moti circolari che l’uomo osservando deve cercare d’imitare mentalmente, o dai remoti e radiosi quasar, i nuclei delle galassie primordiali, gli ultimi oggetti “visibili” del cosmo, esso è ciò che racchiude lo spazio del mondo conoscibile esteriormente, attraverso i sensi, le loro propaggini tecniche, l’indagine razionale. Dove si trova dunque l’oltre del cielo per Platone, il suo iperuranio?
Questo oltre è l’oltre del mondo esteriore. Ma concepire un’ulteriorità esterna a un’esteriorità è un assurdo. Questa ulteriorità dev’essere di verso opposto, interna: oltre l’esteriore v’è l’interiore. Per questo il mondo delle Idee non è un altro mondo, oltre il mondo, diverso dal mondo, ma è il mondo che è all’interno del mondo: è il mondo interiore. L’oltrecielo platonico è il luogo della coscienza. È qui che lo spazio e il tempo conflagrano nel punto e nell’eterno, è qui che sono trasfigurati nella loro origine: nell’eternità che perpetuamente emana il tempo, nel punto che ubiquamente effonde lo spazio. Infatti né l’eterno né il punto sono soggetti a misura, e il loro numero, che non è più un numero fra i numeri, ma il numero che tutti li genera e riassume, è l’uno.
Per essere intese dalla ragione, nostra facoltà analitica, le Idee vanno sottratte al dominio del divenire e della moltitudine, poiché esse sono gli aspetti dell’Uno che origina la moltitudine, e a essa logicamente non assimilabile. Però le stesse idee, che hanno radice nell’idein, nel vedere, si lasciano cogliere sinteticamente nella pienezza della presenza, nella creatura che manifesta l’idea. Solve et coagula, dividi e unifica, analizza e sintetizza: pensa pure che vi sia là una causa e qui un effetto, discerni l’ordine, stabilisci differenze, osserva le gerarchie; ma riunifica tutto, nel cammino inverso, per esperire vivente e presente nel visibile stesso lo stesso invisibile.
Tale trasparenza intellettiva, per cui l’invisibile appare nel visibile, e che ordisce il mondo, è ciò che permette al mondo di essere l’universo, questo tutto volto all’uno, dove è la differenza l’illusione. L’invisibile è la vita, la vita che, come cantò Esiodo, gli dèi nascosero agli uomini: il peccato che ci è congenito non è volgarmente morale, ma intellettuale, ed è l’ignoranza purificatrice per cui crediamo alla morte. Ma la vita è l’essenza del mondo. E al contempo, per l’umano mistero che è l’omologia della physis e della psiche, l’essenza vitale del mondo è per la mente la sua essenza ideale. L’Idea, come la Vita, è nascosta nella Creatura, che la manifesta. La Creatura è il testimone Vivente dell’Idea. Per questo l’iperuranio è ciò che è intimo alle creature.
Le idee traspaiono negli enti del mondo. E l’arte è il fare umano in cui gli enti del mondo divengono massimamente trasparenti. L’oggetto artistico dev’essere diafano al suo modello intellettivo, come l’occhio alla luce. Per questo una poesia somiglia a un lago dove il visibile nel senso della profondità è determinato da due condizioni: la bontà dell’occhio di chi guarda, e la trasparenza dell’acqua. Il poeta lavora a illimpidire l’acqua. Egli non determina il fondo, che è sempre maggio che il parlar mostra, ma ne permette l’intuizione. Qual è questo fondo che nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno? È l’invisibile, a cui il visibile dà accesso. È il silenzio, a cui la parola dà accesso.
Federico Pietrobelli