…negotium literarum, quod licet sit iocundissimum pabulum intellectus, nisi tamen ad unum verum finem redigatur, infinitum quiddam et inane est.
…le conversazioni letterarie, se sono soave pascolo della mente, sono anche, quando non s’indirizzino a un solo vero fine, cosa interminabile e vana.
Petrarca
Fam. XII, VII
Il poeta moderno vive sotto il segno di Petrarca. Tutti i lirici, ovvero tutti i poeti del nostro evo, incedono di pensier in pensier, di monte in monte, come sommamente si raffigurò il Poeta. E questa è la nostra frammentarietà, che non vuol dire non poter indirizzarsi ad unum verum finem – prova ne è l’orchestrazione del Canzoniere e la sua ultima Canzone –, ma come nelle erranze cavalleresche, significa peregrinare tra le creature convinti che il Graal, questa coppa di sapienza, ne raccolga di ognuna un unico sangue, e che la coppa siamo noi.
Nessuno più è stato capace dell’architettura dantesca, perché nessuno più ha vissuto il suo mondo. La Comedia fu l’enorme Arca in cui l’Alighieri radunò il bestiario del pensiero antico e lo traghettò di là dal Lete linguistico verso la nuova sponda volgare. Dante scrive un Sacro Poema, vuole ristabilire il Sacro Romano Impero, vuole rimettere al suo posto l’autorità sacerdotale, risollevare quella monacale, e ridare lustro alla missione cavalleresca. Nel frattempo, roghi di Templari, Cattività avignonese, mercanti che ascendono senza latino. E lui scrive nel dialetto di Fiorenza, ultimo tentativo di ossigenazione collettiva, prima di una lunga apnea, in cui ancora noi siamo, compagni di perle e di relitti: l’evo moderno.
Chi intende senza smanie profanatorie cosa voglia dire sacro nella dizione precedente, si asterrebbe dal dirsi figliolo del Dante così, alla leggera. Chi non lo capisce, e gli gusta però l’Impero, può solo esserne il figliolo d’una notte di spensieratezza. Chi non vede né il desiderio di rettifica dottrinale, né le mire politiche, si trastulla nel linguismo, osannando il padre della lingua italiana e di una lingua totale, tutta terra, fuoco, acqua, aria. Questi tuttavia si vedono costretti a concedere all’Alighieri almeno il dono della veggenza, poiché egli antivide cosa per noi vuol dire letteratura, e con tale spirito scrisse, per dare citazioni ai filosofi, svaghi ai dandy e quiz ai filologi.
Ma noi desideriamo immaginare che un testo sacro per Dante volesse dire qualcosa di non lontano dalle Scritture. E dunque, chi ha scritto poemi sacri, dal Petrarca in poi? Vogliamo dire: quale grande lirico li ha più ritenuti possibili? L’evo moderno ci mostra solo grandi, grandissime poesie, come scogli neri di lava e bianchi di sale in mezzo a un deserto di sete che nominiamo mare, dove le onde si alzano e si abbassano indifferenti alla terra degli uomini e alle sue estreme propaggini. Sono dolmen, sono colonne senza tempio, sono frecce ctonie affiorate per spinte telluriche, col permesso della tenaria Diva, e indicano oscuramente una direzione: guarda in alto.
Guizzi verso il cielo tutti i Maestri li hanno, ma è diverso farlo ordinatamente, votatamente alla testimonianza per chi è rimasto a terra, in previsione di un metodo, di una via – e ciò fece Dante. Non è solo capire che Dante sarebbe dovuto essere letto dai pulpiti e non dalle cattedre, che la preghiera alla Vergine è una preghiera a tutti gli effetti, che il suo dono profetico non lo intendeva diverso da quello di un Elia, non è solo questo: è anche capire che la sua opera è in funzione dell’Amore e la sua lingua è in funzione della sua opera – avvinci e convinci.
Il torrentizio e ieratico percorso dantesco, è come dato in gocce, brevi stille d’infiniti abissi, precipitate per meditazione, nel peregrinare del Petrarca, che a chi s’indirizzi in poesia all’unum verum finem, da qualche secolo, si addice intellettivamente meglio, perché esteriormente senza direzione e spezzato, quanto interiormente concentrico e stagliato sulla vanità della storia. Fine e principio, che sono uguali, sono ciò che conta, ma all’artista, come all’uomo, importa di riconoscere il proprio viaggio, poiché questo e solo questo egli può davvero esprimere e mutare.
Federico Pietrobelli