…ἐντεῦθεν δὴ μόνον τῶν θηρίων ὀρθῶς ὁ ἄνθρωπος “ἄνθρωπος” ὠνομάσθη, ἀναθρῶν ἃ ὄπωπε
…bene l’uomo, unico tra gli animali, fu chiamato anthropos, ovvero anathron ha opope, “che riflette quel che ha visto”.
Platone
Cratilo
Mediatore vuol dire anche che l’uomo non è un contenuto: egli media un altrove verso un altro altrove. Egli è, in una terminologia epurata, un pontifex: deve costruire archi o gettare scalette di corda sull’abisso che gli si spalanca di fronte nell’attimo, anche uno in tutta la vita, in cui si domandi quale sia il suo posto nel mondo, di là dall’assegnazione genetica, sociale e culturale.
Per chi abbia a che fare con le parole, questo abisso non può essere che il linguaggio. Egli infatti si accorge, guardando all’acqua mentale in cui si mira, mentre Eco gli danza attorno, che è il linguaggio ciò a cui non può davvero dare linguisticamente, razionalmente un confine, un fondo: riflesso si aggiunge a riflesso, parola a parola, indefinitamente.
Ma pure per qualsiasi parlante, il linguaggio è una lama che taglia il cosmo e lo rivela come una doppia riva apparentemente incongiungibile. Le due rive si chiamano, nel senso di una spaccatura temporale, memoria e metamorfosi: senza la prima non avremmo percezione della seconda, la quale permette la prima, ed entrambe però mai ci offrono il presente, questo tempo più vero del vero. Le due rive si chiamano anche, nel senso della spaccatura intellettiva, cielo e terra.
Se è proprio dell’uomo il linguaggio perché gli è propria la mente, possiamo anche dire che l’abisso è l’uomo stesso. L’uomo non è qualcosa, se non nella misura in cui egli ha una mente che gli permette di accogliere le cose. Ma la mente di per sé non è, a sua volta, una cosa fra le cose, ma il loro vuoto: essa è il vuoto, con le sue leggi distorcenti, polarizzanti e annichilenti, capace d’accogliere qualsivoglia oggetto.
Usando di un’altra metafora, possiamo dire che la mente è uno specchio, più o meno liscio e pulito, che specchia più o meno limpidamente il mondo. La mente diventa l’immagine che essa specchia. Per questo l’uomo, che riflette quel che ha visto, crea immagini di se stesso, crea ovvero modelli, exempla. Per questo dire all’uomo che è figlio di dèi o di una protoscimmia è discriminante per ciò che l’uomo stesso è: l’antropogenesi non è un evento cronologicamente collocabile, ma un misterioso fondale su cui ad ogni istante si staglia il dramma umano.
In questo dramma, l’uomo non crea gli dèi, l’uomo crea l’uomo. Cosa egli dipingerà sul fondale della sua origine, e che specchiando incarnerà nell’azione del dramma, dipende dalla qualità del suo ascolto, della sua attenzione, dal più o meno esatto riconoscimento del suo posto nella cosmica catena di cui è un anello. In questo esercizio che si chiama Giustizia, le Muse lo aiutano.
Federico Pietrobelli