Come, my songs, let us speak of perfection –
We shall get ourselves rather disliked.
Ezra Pound
Venite, mie canzoni, parliamo di perfezione:
ci renderemo passabilmente odiosi.
Cristina Campo
L’amore, dal punto di vista di chi opera, rispetto all’opera, non ha altro sinonimo che perfezione.
Come, my songs, let us speak of perfection…
La bellezza è l’attributo attraente della perfezione. Per questo l’artista non si preoccupa della bellezza, ma della perfezione, ovvero della compiutezza e della necessità. Compiutezza e necessità richiedono elezione: poiché egli non crea ex nihilo, ma sempre ex toto, dovendo a ogni istante pescare un segno nella miriade di segni compresenti nel suo vivente vocabolario, separando gli elementi da comporre da ciò che è inessenziale e illusorio.
La perfezione è specchio della necessità del cosmo: per questo il capolavoro è propriamente fatale, ed è il campo in cui si intrecciano e si svelano mutualmente i destini degli uomini. In questo senso l’opera perfetta è l’opera necessaria. E come l’universo è una forma in cui tutte le forme si confondono, il capolavoro è una forma inconfondibile che s’impernia sul punto di indifferenza di tutte le forme, al centro del cuore umano.
La perfezione è anche l’estrema metamorfosi, vale a dire l’estinzione dell’oggetto artistico in quanto oggetto, e il suo divenire sguardo al nostro sguardo. Quando, come oggi, nessun modello è dato per questo termine liberatorio e unitivo, l’arte può tentare di mirarsi, nel gesto di Narciso, fino in fondo: fino, ovvero, a sprofondare in se stessa e sparire. Il termine tecnico di tale mossa è l’art pour l’art. Epperò l’arte non è fine. L’arte è mediazione, e sta all’uomo cogliere tra cosa: se tra oggetto e oggetto, se tra uomo e uomo, se tra cielo e terra.
La perfezione non chiede per sé una pubblica legge, ma una solitaria anamnesi, che risalga all’attimo dell’ordinamento del caos, per riflettere questo gesto trasformativo che in Occidente si chiama creazione. Là è la tenebra dove avviene, o non avviene, una vocazione. In questo senso, il capolavoro è la traduzione trasparente di una vocazione.
Per tutto ciò il vademecum dell’artista, in ogni tempo e in ogni luogo, potrebbe ridursi a un avvertimento e un incitamento: non si tratta di essere originali, cioè storici, in concorrenza con padri e fratelli, vogliosi di consenso, proni al trucco per attizzare; ma di essere originari, ovvero correre verso la precedenza del buio e del silenzio e dell’inesprimibile. In epoche di usura ciò vuol forse dire rendersi inattuali, e per un momento, anche passabilmente odiosi.
Federico Pietrobelli